«Carnuval carnuvalicchj’
ramm nu’poc r saucicchj
e si nun m’lu vuoi rà
ca t’pozzan mbracetà»
(Filastrocca popolare)
Il Carnevale di Satriano, come spesso accade per molti eventi, è di derivazione popolare. Questo si svolge il sabato e la domenica antecedenti il martedì grasso e viene considerato quale il più caratteristico, suggestivo e misterioso della regione. La sua peculiarità – unica diremmo – è dovuta a tre maschere tipiche che sfilano lungo le vie del paese: Rumita, Urs e Quaresima.
Nonostante il Carnevale di Satriano venga accreditato come uno degli ultimi riti arborei e ancestrali giunti a oggi nella propria integrità, esso ha invero subito diversi mutamenti per quanto riguarda la sua interpretazione.
Nel XX secolo richiamava il tema dell’emigrazione e del ritorno alla terra natia. Dagli anni 2000, invece, è emersa un’evoluzione consistente, specialmente nell’anno 2013 che a accostato il Rumit all’uomo-albero, ferente di valori ecologici e naturalistici.
Una notevole evoluzione si è innescata, invece, a partire dagli anni 2000 e ancor di più dal 2013 quando si accosta la figura del romita a quella dell’uomo-albero che si fa portatore di valori ecologici e naturalistici.
Anche in questo caso, come per molte tradizioni popolari, le origini sono incerte e si perdono nei secoli. Un’ipotesi è che affondi le proprie origini etniche nella città distrutta di Satrianum, da cui eredita anche il nome.
In epoca medievale, carestia e povertà erano prevalenti in zona, popolata anche – in maniera contrapposta – da signori francesi e popoli alloctoni (inclusi i longobardi) insidiatisi nel circondario. Questa contaminazione è altamente probabile abbia influito sulla storia del luogo. Taluni affermano anche che la nascita dell’orso (urs in dialetto) ne sia una conseguenza poiché, stando sempre ad alcune presunzioni, sembra che costituisse una metafora: la traslazione della cultura estera – presumibilmente francese – in usi e costumi del satrianese.
A seguito della distruzione della società di Satrianum, vi fu una migrazione verso Pietrafesa con uno stanziamento pressoché massiccio e totale.
Le maschere
Le maschere, generalmente, si riconducono alla storia e alla cultura del luogo in cui nascono. Ognuna indica uno stile di vita che si differenzia per classe, condizione socio-economico-culturale.
Quelle di Satrianum sono tre: eremita, orso e Quaresima. I primi – durante la festa – si divertono a punzecchiare gli astanti con bastoni al termine dei quali c’è un pungitopo. L’orso – proprio come l’animale nella realtà – incute timore con la sua stazza e il suo temperamento selvaggio e stordisce con le sue campane rumorose. Infine, la Quaresima che vaga lentamente, con mestizia, quasi a contrastare l’aria di allegria che imperversa durante la festa.
L’orso
Gli orsi (urs)
Uomo animale, vestito di pelli di pecora o di capra rappresenta prosperità, buona sorte e successo. A dispetto di quanto possa sembrare, le pelli sono pregiate e, insieme con altre ricchezze, rappresente l’emigrante rientrato in patria dopo aver fatto fortuna in terre lontane. Saltella accompagnato dal pastore, vestito di abiti campagnoli, il cui compito è quello di placare l’impeto selvaggio del proprio animale, assicurandosi che non molesti eccessivamente la gente.
La lontananza prolungata dalla propria terra l’ha portato al mutismo. Inoltre, porta un sacchetto sulla testa che ne copre le fattezze – e l’identità – il quale presenta due buchi per gli occhi e uno per la bocca.
Il suo corpo è ornato di campanelli e campanacci rumorosi, tanto più quanto l’orso saltarella con il doppio intento di incutere timore e di sottolineare il fervore della maschera.
Interpretazione e simbologia dell’orso hanno vissuto cambiamenti negli anni. Inizialmente vendetta per un torto subito, grazie all’anonimato derivante dal mascheramento cercava di renderlo al proprio “aguzzino” risolvendo conflitti sociali.
Come accaduto per il Rumit, anche l’orso è stato associato – nel secondo dopoguerra – al migrante (come summenzionato) tornato in condizioni agiate. Contrapponendosi proprio all’eremita che, di contro, era rimasto nella propria terra vestendo di sole foglie e, spavaldo e impertinente, si intrufolava nelle case altrui, anche di forza, aomportandosi da padrone.
A differenza degli esordi, oggi si vedono più urs girare insieme – e non in solitaria – condotti da un pastore.
L’eremita
I romiti (rumit)
«Si la furtuna vuoi ca’ t’assist man inda’sacca e nun t’ fa nziste’, ra u rumit’ t’ha fa tuccà e na cosa ng’aja lassà.»
(Filastrocca del Romita)
(U’rumit) Uomo vegetale, albero vagante, maschera silente avvolta e cosparso di foglie, rampicanti e tralci d’edera.
Maschera altrettanto importante ed evocativa, simbolo di povertà e penuria. A differenza dell’orso, seppur indigente, è rimasto (fedele) alla terra natia costruendosi autonomamente un rifugio periferico, lontano dal centro, nel bosco.
L’ultima domenica prima del martedì grasso vagabonda in paese, strusciando il suo bastone con all’apice un ramo di pungitopo o di ginestra (il fruscio) sui portoni delle abitazioni. In questo modo bussa alle case e, chi ne riceve la visita, ne rispetta anche il silenzio ed è solito offrire un dono in cambio di un buon auspicio (un tempo si soleva offrire generi alimentari; oggi si danno pochi spicci).
Come per l’orso, ancora una volta è la seconda guerra il discrimine temporale tra una “funzione” e la sua variazione. Dapprima, infatti, si associava l’eremita a uno spirito francescano, emarginato, che terminato l’inverno si recava in paese questuando.
A seguito della – reale – migrazione si è sovrapposta al rumit la figura del satrianese che – svogliato o impossibilitato – non aveva abbandonato le origini per cercare un futuro miglire. Così, anch’egli indigente, come la vecchia figura, vagava elemosinando per affrontare la bella stagione con forza e vigore.
Attualmente, i giovani, hanno nuovamente – e radicalmente – stravolto il significato dell’eremita, volendolo utilizzare allegoricamente per un messaggio ecologista universale: una sorta di rovesciamento dei valori per ristabilire quell’antico rapporto con la madre terra, in rispetto di chi la popolerà in futuro.
La quaresima
Le Quaresime (quares’m)
«Quare’s’ma uocchj tort vaij chiangend p’ nand r’ port vaij r’cenn sciglj miej aggj pers’ a cumbagnie»
(Filastrocca delle Quaresima)
È un’anziana donna di nero vestita, cul cui volto si nota una palese smorfia rossa da guancia a guancia.
La avvolge un manto nero di stoffa o di cotone e sul capo porta una culla con il figlio, concepito nel periodo di Carnevale, di cui però non si conosce il padre.
Figlio che, stando alla leggenda, rappresenta il carnevale stesso ma giunto al termine.
La Quaresima onn ha genere e può essere interpretata sia da donne che da uomini: è la massima espressione della tristezza che accompagnava le donne vedove, che alla morte del marito si lasciavano andare a sentimenti di mestizia e angoscia.
Questa figura è quasi statica: procede, sì, per le vie ma con un passo lento e malinconico, profondendosi in lamenti striduli di disperazione, che la caratterizzano.
I Carri allegorici
Vera essenza del carnevale, sono stati abbandonati dagli anni 2000 per la minore compartecipazione popolare e l’elevato costo di realizzazione.
Dal 2013\2014 sono stati soppiantati da un nuovo evento, di taratura nazionale: la foresta che cammina, a opera della associazione di promozione culturale “Al Parco” in collaborazione con i principali enti locali.
‘A Zita
È la messa in scena del matrimonio contadino con scambio di ruolo: donne che rappresentano uomini e viceversa. A ‘Zita (la sposa) viene accompagnata da lu zit (lo sposo) cui fanno seguito tutte le figure tipiche di una cerimonia nuziale: un corteo di cui fanno parte anche prete, chierichetti e tutti gli invitati.
Secondo tradizione, tutti questi si travestono da maschio o da femmina, per alimentare l’ilarità del momento, camminando per le strade. Ne emerge una messinscena tragicomica, che talvolta sfiora il volgare. Durante il passaggio è frequente la consumazione di caramelle, viveri o addirittura vino.
Rilevanti sono quei comportamenti infedeli che la sposa, sempre in pieno festeggiamento, mette in atto anche sotto il naso del futuro marito.
Cinema
Alber – di Michelangelo Frammartino. La trama è un resoconto della vita quotidiana di un Rumita.
Televisione
La tradizione carnascialesca satriana ha, nel tempo, attirato non solo l’attenzione dei media locali, giungendo addirittura a quelli nazionali.
Curiosità
Sono 131 – uno per ogni paese della Basilicata – gli alberi che camminano durante la foresta che cammina.
È anche possibile prendere parte attivamente al carnevale travestendosi da Rumita. Basta presentarsi con un vestito già fatto o farsi aiutare dall’organizzazione. Oppure, a fronte di un contributo simbolico, è possible farselo costruire in loco. Oltre ad alcune accortezze circa il vestiario, non ci sono limiti alla partecipazione!
Il Carnevale in letteratura
Il Romita, l’orso e la vedova bianca
Quaderni, Edizioni “La scena territoriale”
1982 – Enzo Spera
Riti di paesaggio
Antropologia museale, rivista della Società per la Museografia e i beni demoetnoantropologici
2015 – Sandra Ferracuti
Polifonie del patrimonio culturale: il caso del Carnevale di Satriano di Lucania
International symposium “Dialogue among cultures. Carnivals in the World” – Florence, Viareggio 3-7 Febbraio 2016
2016 – Sandra Ferracuti
Le tradizioni popolari da pratiche sociali e patrimoni culturali. Maschere e Carnevali lucani nelle ricerche di Enzo Spera.
Studi Nuovo Meridionalismo, anno III n. 4/Aprile 2017
2017 – Ferdinando Mirizzi